domenica 6 maggio 2012

Antispecismo, veganismo, vegefobia: riflessioni, nuovi traguardi ed alcuni chiarimenti


Una delle maniere più disoneste di condurre una discussione è quella di spostare l'attenzione dall'oggetto della stessa alle qualità individuali degli interlocutori, rivolgendo accuse di tipo personale, denigrando i soggetti che propugnano una tesi al fine di confutare la stessa.
Questo fastidioso, irritante atteggiamento lo vedo spesso applicare dai detrattori dell'antispecismo per depotenziare - se consapevolmente o meno, non saprei - l'argomento dello sfruttamento degli animali. Così su Facebook nascono pagine che si accaniscono contro i sostenitori della liberazione animale, colme di offese, di riferimenti ed aneddoti personali estrapolati in maniera tendenziosa dal loro contesto originario al fine di farci apparire come dei pazzi esaltati estremisti intolleranti. Ormai non saprei nemmeno più quantificare il numero di volte che ho sentito o letto: "ah, io gli animalisti non li sopporto proprio, sono delle persone fanatiche, esagerate ecc.ecc.". Per non parlare degli sguardi di disapprovazione o dei risolini di scherno - più o meno velati - che ci vengono rivolti nelle varie situazioni di tipo sociale (cene, pranzi, aperitivi, feste ecc.) al solo sentirci pronunciare la frase "no, grazie, io non mangio carne, sono vegano (o vegetariano)", situazioni in cui sovente sbocciano lunghissime discussioni in cui, facendo apparire noi come esaltati, estremisti, esagerati, si mira allo scopo di ridicolizzare e criticare la nostra scelta. Si finisce così con lo spostare l'attenzione dal vero tema dell'antispecismo, che è la liberazione degli animali dal dominio dell'uomo - ma anche dell'uomo dall'uomo - a noi stessi, che di tale lotta ci facciamo promotori. Non solo, spesso in queste discussioni della sofferenza degli animali non si parla affatto, si finisce quasi col rimuoverla, col tacerla, tutti presi come sono gli uni - i detrattori - nell'attaccarci, e gli altri - noi -  nel difenderci dalle accuse che ci vengono rivolte.
Ci chiamano "patosensibili" perché saremmo troppo coinvolti dalla sofferenza degli animali, troppo empatici, troppo sentimentali, come se esistesse una quantificazione standard dell'empatia e dell'amore, un misuratore ufficiale del sentimento volto a stabilire fino a quanto esso debba ritenersi nella norma e quanto, superato tale confine immaginario, sconfini nella patologia; ed il bello è che per tante persone questo limite, questo confine sarebbe dato proprio dalla specie verso cui si presta attenzione e cure: se si fa l'elemosina ad un barbone va bene, è gesto considerato socialmente accettabile ed anzi auspicabile, mentre se si porta da mangiare ad un gattino randagio è gesto da folli, irrazionale, nella migliore delle ipotesi, una perdita di tempo. Altri ci chiamano invece - in totale ribaltamento di prospettiva - sadici, intolleranti, fanatici, nazisti, insensibili, nemici della specie umana perché, a loro dire, preferiremmo gli animali ai membri della nostra specie. Innanzitutto trovo davvero curiosa questa doppia prospettiva: che si decidano, almeno!: o siamo patosensibili, o siamo insensibili, non possiamo essere tutti e due le cose a seconda di come faccia più comodo all'interlocutore di turno.
Comunque sia, tutto ciò non ha nulla a che vedere con il vero argomento che si vorrebbe trattare, ossia lo sfruttamento degli animali e quindi, il desiderio della sua fine, in una battaglia volta alla liberazione animale, ma anche umana. Questo significa propugnare la tesi dell'antispecismo.
E non dovrebbe importare chi siamo noi, se insensibili o patosensibili, se estremisti o persone misurate, se antipatici o simpatici, quello che importa è solo la liberazione animale. Essa, come tale, può essere solo totale, non parziale.
Anziché rispondere per le rime nel tentativo di difenderci dall'interlocutore di turno che ci denigra, offende, sbeffeggia, dovremmo invece sforzarci di riportare la discussione sul vero oggetto della stessa: ossia lo sfruttamento degli animali e la sofferenza che esso procura loro. Purtroppo non è facile in certi frangenti mantenersi lucidi, ma invece è importantissimo cercare di non cadere in questo tranello dialettico. Ricordo la spiacevole discussione che ha avuto luogo tempo fa sul blog Minima et Moralia in cui molti antispecisti si sono dovuti difendere dall'accusa di non sapere bene come si svolge una corrida, mentre la questione della violenza praticata sul toro - vero argomento delle nostre opposizioni - è passata in secondo piano. Tranello in cui, ahimé, sono caduta anche io. In maniera tendenziosa in quell'articolo contro l'antispecismo c'è stato un attacco ben mirato (e sleale, con frasi estrapolate dai loro originari contesti) contro gli antispecisti, con conseguente depotenziamento delle nostre istanze, ossia, in sostanza, con conseguente depotenziamento dell'antispecismo stesso. Mai, dico, con il senno di poi, avremmo dovuto farci trascinare in una discussione ad personam.
Questi atteggiamenti ed accuse ad personam sono, ahimé, piuttosto frequenti, tanto che si è cominciato a parlare di "vegefobia": ossia atteggiamenti e comportamenti discriminatori nei confronti di chi sceglie di tirarsi fuori dal sistema dello sfruttamento animale ed indirizza in questo senso le proprie scelte (alimentari, di vestiario ecc.), divenendo vegetariano o vegano.
Mi ha fatto molto riflettere la discussione nata in seguito ad un articolo apparso su Asinus Novus  dal titolo "Teriofobia", scritto da Marco Maurizi (che saluto con affetto). Nei commenti, giustamente, alcuni (tra cui lo stesso Maurizi) fanno notare come il termine "vegefobia", indicando atteggiamenti discriminatori nei confronti dei vegetariani/vegani, sia inappropriato e possa dare adito a fraintendimenti sociali perché tenderebbe appunto a focalizzare l'attenzione sul soggetto uomo, che compie una scelta individuale, e non sugli animali, per i quali invece si adopera: come se la scelta vegana fosse in sostanza una mera scelta di uno stile di vita - e come tale quindi individuale, condivisibile o meno - ma che lascerebbe inalterata la base socio-economica dello sfruttamento animale (rimanendo il boicottaggio di determinati prodotti animali al di sotto della soglia numerica oltre la quale si potrebbero verificare un sostanziale mutamento socioeconomico).
Inoltre, si può davvero parlare di discriminazione per il solo fatto che nel nostro quotidiano troviamo molti ostacoli, tra cui anche la difficoltà di reperire prodotti vegani nei comuni supermercati o di trovare menù vegani nei ristoranti, nelle mense pubbliche, nei bar ecc.? Ed il sarcasmo, le continue derisioni e sbeffeggiamenti cui siamo continuamente sottoposti possono considerarsi una forma di molestia o atteggiamento persecutorio?
Certo, sono comportamenti che feriscono sotto il profilo psicologico e che potrebbero giungere persino a minare le convinzioni di chi in realtà vorrebbe diventare vegano e lottare per la liberazione animale, ma ha bisogno di approvazione sociale e non sopporterebbe di sentirsi messo in "minoranza". Purtroppo tanti giovani trovano resistenza anche nelle stesse famiglie in cui vivono: genitori che si oppongono alla loro scelta di diventare vegetariani, che li ostacolano (proprio per ignoranza, ossia perché pensano che una dieta priva di animali e derivati non sia sana), fiaccando la loro motivazione. Esiste anche una difficoltà oggettiva nel trovare piatti veg in circostanze sociali, menù veg nei ristoranti (specialmente in Italia comunque, in Inghilterra invece ogni ristorante ha anche un suo menù veg, ed ogni piatto veg è contrassegnato da un pallino o stella verde; inoltre è sempre specificato se vegetariano o vegano; così come, sempre in Inghilterra, è facile trovare numerosi prodotti vegani anche nei supermercati comuni).
Quindi esiste di fatto una cultura specista - amplificata, conferma e rafforzata poi da una costante e martellante propaganda mediatica - contro la quale ci sentiamo spesso inermi e che mira constantemente ad indebolire, negare, ridicolizzare le nostre lotte e richieste, ma forse, parlare di discriminazione è in effetti esagerato, o quantomeno fuorviante perché i veri discriminati non siamo noi, ma gli animali. Cioè, intendiamoci, a me scoccia andare al ristorante e non trovare nemmeno un piatto vegano, ma se ciò avviene è perché viviamo in una cultura in cui è considerato "normale" nutrirsi di animali e derivati, e non certo perché qualcuno ci vuole danneggiare. Sono gli animali ad essere danneggiati, non noi.
Io sono convinta del fatto che nella nostra società gli antispecisti, per tutta la serie di motivi sopraindicati e per altri, non hanno vita facile. Purtroppo ci scontriamo quotidianamente contro un muro di indifferenza, ignoranza e disinformazione che oppone una strenua resistenza alle nostre istanze (che poi, sono quelle degli animali). Di fronte alla tanta disinformazione e propaganda mediatica che mira a rimuovere, negare, depotenziare lo sfruttamento e la sofferenza degli animali, ci sentiamo stanchi, sfiduciati, demotivati. Ma, torno a ripetere, non è forse fuorviante però parlare di discriminazione dei vegetariani/vegani quando in realtà i veri "discriminati" - ma sarebbe più corretto dire oppressi, schiavizzati - sono gli animali? Non si rischia, ancora una volta, parlando di "vegefobia", di spostare l'attenzione su noi, promotori della liberazione animale, anziché sulle condizioni di sfruttamento degli animali stessi, assecondando così il gioco di chi, per negare la serietà e la forza dell'antispecismo, vuole sminuire coloro che lo sostengono? Soprattutto, il termine "vegefobia", forse, con quella radice "veg", rimane troppo focalizzato su uno degli aspetti dell'antispecismo, ossia la scelta alimentare.
L'articolo di Maurizi mi ha fatto parecchio riflettere e, seppure in un primo momento - e proprio perché la prima volta che ho sentito il termine "vegefobia" (nel mio blogroll c'è il link al relativo sito) mi aveva parecchio colpito, riscontrando come comuni e vissute in prima persona certi atteggiamenti denigratori nei confronti dei vegetariani e vegani - ho obiettato che invece di  questa forma di "discriminazione" bisogna tener conto e sarebbe sbagliato negarla o ridimensionarla, mi sono poi resa conto invece che ciò che più che urge è riassegnarle un giusto spazio (certamente se capita di essere offesi o anche veramente discriminati - leggo di casi di persone cui è stato negato un posto di lavoro perché nel curriculum avevano indicato di essere vegetariane - bisogna stigmatizzare, denunciare il fatto e cercare giustizia), ossia svelarne le vere origini, restituirle il suo vero significato: ridicolizzando gli antispecisti, i vegani, vegetariani, è in sostanza a ridicolizzare gli animali che si tende. Quindi forse come suggerisce Maurizi sarebbe più corretto parlare di "teriofobia", che non di "vegefobia".
Anche perché, a pensarci bene, noi siamo veramente l'unica "minoranza" a volere qualcosa non per noi stessi, bensì per qualcun altro che non può esprimersi direttamente: gli animali. Non scendiamo in piazza per noi stessi, per i nostri diritti, ma per quelli degli animali. Certo, vorremmo anche più ristoranti vegani, più prodotti vegani, ma non in aggiunta a quelli che già ci sono, ma semmai in completa sostituzione di questi altri.
La nostra voce viene data in prestito agli animali - e non perché essi non sanno esprimersi, ché comunicano perfettamente, ma perché la maggioranza non è disposta ad ascoltarli - e chiede diritti legittimi per loro: il diritto di vivere in pace, liberi, la fine del loro asservimento all'uomo.
Ciò che dobbiamo fare quindi è smettere di indignarci ogni volta che ci sentiamo offesi, derisi, incompresi e mantenerci lucidi ed attenti nel riportare l'attenzione sugli animali, sviandola da noi stessi.
Bisogna fare anche attenzione, secondo me, a parlare di veganismo. Sempre meglio parlare di antispecismo. O di diritti degli animali, di liberazione animale, di lotta contro lo sfruttamento animale perché il veganismo è solo uno dei mezzi con cui combattere contro un sistema che ha radici infinitamente più complesse. E d'altronde, l'assoggettamento degli animali all'uomo non avviene solo nel campo alimentare, ma in mille altri campi e modi, persino a partire dal linguaggio (ne ho parlato qui).
La scelta vegana dovrebbe essere quindi conseguenza logica dell'essere antispecisti, un inizio, ma non l'unico fine e punto d'arrivo.
Conosco, ahimé, moltissimi vegani che hanno intrapreso un certo percorso per motivazioni salutari o d'altro tipo; per alcuni l'essere vegani fa parte di un percorso spirituale, in questo senso estremamente soggettivo, individuale, che nulla ha a che fare con la liberazione animale.
Sia chiaro, ben vengano persone così avanti nel loro percorso spirituale (un percorso comunque di valore, che implica il rispetto di ogni forma vivente) - anche perché, come dice l'amico Claudio, agli animali alla fine importa poco se non li mangi perché pensi che la loro carne ti faccia male o perché sei antispecista, a loro basta che appunto, non li mangi - ma rimane comunque un cammino personale, che per nulla (o di poco, al massimo sulle persone vicine) incide sulla prospettiva di una totale abolizione dell'attuale sistema basato sullo sfruttamento degli animali (e degli uomini, ché non si deve dimenticare che nella logica di dominio del nostro attuale sistema gli animali sono solo la base di una piramide di sfruttamento globale, di cui noi tutti, chi più chi meno, facciamo parte).
Essere vegani e dire (ne conosco molti, non mi sto inventando nulla): "io ho fatto questa scelta, ma rispetto le scelte altrui, questo è un cammino, un percorso, ognuno dovrà arrivarci con i propri tempi, magari in un'altra vita (sic!)" - ma intanto gli animali continuano a morire a miliardi - significa che allora importa di più della propria crescita personale che non della liberazione animale. Importa di non fare del male perché ci si vuole sentire in pace con sé stessi, puliti, e poi degli altri, del resto... chissene frega.  E invece no. A noi antispecisti deve importare in primo luogo della liberazione animale, che è un atto politico quindi (politica intesa nel suo senso più ampio, ovviamente, e non come appartenenza ad uno schieramento piuttosto che ad un altro) perché mira a sovvertire l'attuale sistema di sfruttamento di altri esseri senzienti (tanto umani che animali) e poi, in secondo luogo, semmai, della nostra crescita spirituale personale.
Bisogna farsi parte attiva, non passiva che nasce e finisce con la sola scelta dello stile di vita vegano. Non basta. È tantissimo, certo, ma ci deve essere una presa di coscienza ed una denuncia totale di tutto il sistema e di tutti i comportamenti sociali in cui l'animale viene ridotto a "cosa".
Dire "io rispetto la tua scelta", è una frase che l'antispecista vegano non dovrebbe mai dire all'onnivoro. Sarebbe come se ai tempi della seconda guerra mondiale qualcuno avesse detto al Nazista: "io per mia scelta personale e secondo un mio cammino di illuminazione spirituale non brucio gli Ebrei nelle camere a gas, ma rispetto la tua scelta". Un paradosso, no?
Dunque, l'antispecismo non è uno stile di vita, ma un atto politico perché mira alla fine del sistema socio-economico alla cui base vi è lo sfruttamento degli animali (e degli umani, lo metto sempre tra parentesi perché nello specifico sto parlando degli animali e poi perché penso che sia sottointeso). Mira all'abolizione dell'asservimento di alcuni esseri viventi (i molti) ad altri (i pochi). Per questo non ha senso quando qualcuno ci accusa di essere insensibili e di voler favorire gli animali agli umani. Essere antispecisti non significa salvare la mucca e mandare a morire l'uomo (come ho scritto qui). Significa avere rispetto di entrambi.
La scelta vegana è ovvia conseguenza di chi intanto si rifiuta di far parte di questo sistema, di chi davvero ritiene che uccidere altri esseri senzienti per cibarsene o per altro sia un atto ignobile e mostruoso. 
Chi si definisce antispecista, chi abbraccia le istanze dell'antispecismo NON può non diventare anche vegetariano/vegano, NON può non rifiutarsi di dare il suo contributo allo sfruttamento degli animali, nelle tante, infinite forme in cui esso avviene e si manifesta.
Pensare però di essere a posto con la propria coscienza nel coltivare la propria isoletta felice della scelta vegana che agisce indisturbata all'interno di un sistema in cui comunque gli animali continuano a morire a miliardi per mano dell'uomo, secondo me non basta; siamo ad un livello minore di ipocrisia, siamo coerenti con noi stessi, ma siamo ancora succubi del sistema di sfruttamento degli animali.
Se uno pensa che diventare vegani sia il massimo che si possa fare, si sbaglia. Sicuramente è il massimo che può fare per sé stesso, ma non per gli animali.

Questo è un post di profonda autocritica, di parziale messa in discussione di alcune mie idee (lo avevo scritto nel mio profilo, del resto, che sono una che alza sempre un po' la posta rispetto ad alcuni traguardi raggiunti, che non si reputa mai "arrivata" e che cerca sempre di apprende cose nuove senza "arroccarsi" su prese di posizioni a prescindere), frutto di confronti e letture di altri blog, tra cui il già citato Asinus Novus di Marco Maurizi - del quale sto anche leggendo l'interessante saggio "Al di là della Natura - gli Animali, il Capitale, la Libertà  (di questo mi riserverò di parlare in seguito, a lettura ultimata) - oppure quello di De Spin (che scrive articoli sempre molto mirati ed efficaci) o di articoli come questo  e, magari, anche frutto di un'evoluzione personale - data anche sempre dall'incontro con gli altri - che spero essere sempre in crescita.
Ciò che è curioso è che quando presi la decisione di diventare vegetariana pensai che fosse, appunto, una scelta personale (sempre scaturita dall'amore per gli animali e dalla volontà di rispettarli), ma, rendendomi conto sin da subito della valenza di portata universale che questa scelta conteneva in nuce - mirando al boicottaggio dei prodotti dello sfruttamento animale - cercai subito di parlarne il più possibile a chi mi stava accanto, sensibilizzando, aprendo il blog, credendo fortemente nel potere individuale delle singole scelte (e ci credo ancora, non lo sto affatto rinnegando, solo che non basta, in fin dei conti sono secoli che esiste il veganismo/vegetarianismo, ma il sistema di sfruttamento degli animali contina a non venire messo in discussione, se non appunto a livello individuale, ma non sul piano socio-economico) ecc.. Poi c'è stato un momento in cui ho pensato che diventare vegana fosse il massimo che potessi fare. Ora penso che essere antispecisti significhi far parte di un movimento totalmente rivoluzionario - teso a minare le basi di un sistema che si regge sullo sfruttamento di una massa sconfinata di esseri senzienti la cui individualità è totalmente negata - e che, come tale, ha un significato anche politico. Certamente le nostre singole scelte devono essere volte a boicottare questo sistema, quindi è ovvio che diventare vegetariani/vegani sia fondamentale, così come serve partecipare a manifestazioni, sottoscrivere petizioni, sensibilizzare, scrivere sui blog, partecipare a discussioni in rete o nel reale ecc.. Ma bisogna avere ben chiaro in mente che questo sistema, così com'è strutturato, non vedrà mai la fine dello sfruttamento degli animali e degli uomini.
Bisogna darsi da fare per comprendere tutte le implicazioni di questo sistema, la sua struttura capillare di cui il massacro di animali è la base. 
Capire per smascherarlo, per provare a destrutturarlo. Per provare a cambiarlo.

(questo articolo è stato pubblicato anche su Asinus Novus)

24 commenti:

Sara ha detto...

La denigrazione del prossimo è in ogni caso e sempre una forma di difesa, quindi un segno di debolezza da parte di chi si è arresto.
Credo che sia una costante storica quella di portarci dietro nei secoli, i perdenti. Anche loro sono tra i primi beneficiari delle nostre battaglie. Magari ogni tanto gli va ricordato.

Anonimo ha detto...

BELLISSIMO post biancaneve! ricordo solo che la scelta vegana implica un minor utilizzo di risorse idriche e ambientali, quindi fa bene all`intero pianeta. un caro saluto!!

Rita ha detto...

@ Sara

Giusto, è verissimo, la gente non capisce che l'antispecismo è una lotta di liberazione totale, che quindi coinvolge tutti gli oppressi, i diseredati ed i "perdenti" del mondo. Io mi stupisco sempre quando mi sento dire: "ah, ma con tutti i problemi che ci sono nel mondo, la povertà, l'oppressione, la fame ecc. voi antispecisti vi preoccupate degli animali.". Probabilmente questo avviene perché non si fa il giusto collegamento tra sfruttamento umano ed animale. Le due forme di oppressione sono legate, anzi, di più, sono la stessa cosa. Ovviamente gli animali, non potendo difendersi dalla forza dell'uomo, sono coloro che stanno peggio di tutti.
I neri, le donne, e via via tutte le minoranze etniche che sono state discriminate, gli omosessuali ecc. ad un certo punto si sono organizzati e sono scesi in piazza, mentre gli animali non lo fanno; o meglio, lo fanno con forme di comunicazione diversa, che noi non vogliamo intendere, perché è ovvio che un animale che vive infelice, che urla quando viene portato al macello, che cerca di sfuggire al suo aguzzino, sta in realtà comunicando qualcosa, ossia che non vuole essere sfruttato ed ucciso.
E dici benissimo, hai colto un punto importante: denigrare chi lotta per una società migliore è segno di debolezza perché significa che ci si è arresi (come fanno certe donne che assecondano comportamenti maschilisti per avere l'approvazione dell'uomo).
Grazie per il tuo bel commento. :-)

Rita ha detto...

@ Rò

Ma certo. La scelta vegana, oltre che ad essere mirata per liberazione animale, ha indubbi vantaggi per tutto l'ecosistema ed anche per la salute dell'uomo stesso. Per me rimane una strada da prendere assolutamente. Questo è innegabile.
Importante però è che sia inserita in una prospettiva più ampia, ossia che sia anche un mezzo e non un fine. Che esca fuori dal campo d'azione individuale e miri a modificare le attuale strutture socio-economiche che si reggono proprio sullo sfruttamento animale.
Un caro saluto a te. :-)

Unknown ha detto...

Questo articolo mi lusinga assai ma sono sicuro che se hai maturato delle riflessioni critiche o auto-critiche è perché il modo in cui vivi l'antispecismo e il veganismo (anzi, in cui credo tu vivi ogni cosa che ti impegna seriamente nell'esitenza) era già critico, vigile, consapevole. Purtroppo spesso quando si raggiunge una consapevolezza, cioè si supera uno stadio di incoscienza e passività più o meno indotta (anche quando l'ambiente ci "induce" alla passività lo fa solo sfruttando le venature di pigrizia morale e intellettuale che ci sono in ogni carattere), lo si fa e subito lo si trasforma in una "conquista", cioè in uno stato di fatto che difficilmente si è poi disposti a mettere in discussione. L'essere, si sa, è più comodo del divenire :)
In tal senso penso che tu abbia colto nelle cose che hai letto solo lo spunto per spingerti oltre nel tuo personale percorso di crescita.

Venendo a quanto scrivi mi trovi ovviamente d'accordo :) Ma la cosa non è certo scontata, perché in realtà hai elaborato una tua posizione sulla questione, a partire per esempio da tue esperienze personali ed anche il modo in cui l'hai presentata è molto chiara e convincente.

Mi sembra anche che stai dando voce ad una consapevolezza dell'antispecismo (non solo italiano) che vedo diffondersi di consapevolezza dell'immenso compito che abbiamo innanzi (come ho detto nell'interivsta per Notizie radicali) e anche questo non può che farmi piacere. Non ovviamente per me, in realtà - come mostra il bellissimo articolo di Antonella Corabi sullo "stile di vita vegan" - non sono affatto l'unico a pensare che l'antispecismo abbia una dimensione costitutivamente politica...sono però contento che questa consapevolezza si diffonda. Anche attraverso il tuo bel blog, perché fare "politica" non significa affatto appiattirsi tutti su una visione monolotica, anzi, significa dare alle nostre sensibilità individuali un luogo comune dove esprimersi e confrontarsi, nella piena coscienza che stiamo lottando per una società diversa in cui umani e non-umani possano vivere una vita senza dominio. Visto che già siamo condannati al dolore dall'esistenza, almeno ci sia risparmiata il triviale e triste destino dell'oppressione reciproca. Forse, se l'intelligenza collettiva potesse finalmente decostruire la macchina del terrore che abbiamo costruito, potremmo addirittura imparare a guardare negli occhi dell'altro (in ogni sua forma) la traiettoria di una salvezza possibile. (sai che sono un appassionato della Redenzione!) E con questo finale escatologico ti ricambio il saluto e spero di risentirti presto qui o su Asinus! :)

Rita ha detto...

WOW, che bellissimo commento Marco!

Beh, insomma, io non posso fare a meno di ringraziarti per gli innumerevoli spunti di riflessione che trovo nel leggerti; forse sarei comunque giunta da sola a determinate conclusioni, chissà, ma intanto ci sono arrivata grazie a te e di questo devo darti assolutamente atto! ;-)

Già, dici bene, questa macchina del terrore l'abbiamo costruita noi con le nostre stesse mani e adesso ci si pone davanti il difficile - ma non impossibile, e di questo dobbiamo essere assolutamente convinti - di distruggerla.
Sì, un modo per salvarci tutti, uomini ed animali, e per tornare liberi, nella piena espressione di questo termine, ci dev'essere. Crediamoci e diamoci da fare.

Penso anche io che la naturale evoluzione dell'antispecismo non possa che essere politica. Speriamo che si diffonda questa consapevolezza.
Un abbraccio.

Volpina ha detto...

"...sadici, intolleranti, fanatici, nazisti, insensibili, nemici della specie umana"? ...prego?? Che cosa mi tocca sentire... sono tutte baggianate.

Maurizi invece ha ragione, è vero che molti pensano che chi sia vegano non faccia nessuna differenza per gli animali. Questo trovo sia uno dei blocchi principali in un discorso per cercare di "convicere" o perlomeno sensibilizzare qualcuno.
"ma tanto li ammazzano lo stesso" o "ma tanto è già morto". Frasi che lasciano lo sgomento e i pugni che prudono in certi casi.


Altra cosa, è vero che gli "altri" cercano sempredi spostare l'attenzione dagli animali, vere vittime, a noi, i cosiddetti sostenitori.
Purtroppo anche io per quanto me ne vergogni, per quanto mi senti pusillanime, alle persone con cui lavoro non dico mai che sono vegana. Non perchè non vorrei parlargliene o perchè me ne vergogni, ma perchè li conosco e purtroppo SO di percerto che la cosa mi causerebbe infiniti problemi... per non parlare del fatto che penserebbero potrei fare "il lavaggio del cervello" ai loro figli.


Per la minoranza è vero, non siamo a volere i diritti per noi, ma per loro, e anche se chiediamo ristoranti vegani, che sono per NOI, indirettamente la cosa è rivolta a loro, agli animali. Non è perchè ci piace cagare il cazzo per il cibo, è ovvio che vogliamo mangiare cruelty free per gli animali.

Ma lo sai che in molti non sanno nemmeno cosa significhi "antispecismo"? Oddio, dopo una manciata di minuti si prendono il lemma del termine e ci arrivano quasi da soli, però è difficile inoltrarli in questo modo. Se gli parli di antispecismo, si sentono feriti perchè sanno di essere specisti e quindi cercano inutili difese contrattaccando ad insulti o a scuse varie.
Per l'arrivarci, è vero, anche io sono di quella che dice che sia una scelta personale, infatti, molte persone ci arrivano da sole, pian piano, e tocca a quelle persone cercare di portare sulla strada del veg, gli altri che proprio non riescono o non vogliono arrivarci.
Io dico agli altri che è stata una mia scelta, anche aggiungo che la scelta non dovrebbe esserci, dal momento che si parla delle vite degli altri. Non puoi scegliere cosa fare della vita che non è tua.
Io non dico MAI "rispettto la tua scelta". Piuttosto sto zitta, oppure cerco un modo per fargli vedere gli aspetti positivi di una vita vegana: sentirsi meglio fisicamente e psicologicamente, avere più soldi nel portafogli, non avere più acciacchi fisici (e fidatevi, la carne e i derivati ne sono causa per la maggiorparte dei casi), e altre cose.
Essere anche contro il sistema, che di questi tempi sembra andare per la stragrande, sai, essere controcorrente, fare le persone che sono contro oramai è "in". Quindi per quanto mi disgusti l'idea, farlo passare come modaiola la vita veg, può essere una via. Basta che funzioni, no?

Anche io anni fa credevo che diventare vegana fosse il massimo che potessi fare, ma... man mano che passava il tempo, non riuscivo a placare il mio animo, vedevo sempre più animali soffrire (e li vedo tutt'ora) e sento che non ci si muova abbastanza per loro. Per questo rompo i coglioni in una maniera ASSURDA alle commesse dei negozi e alle cameriere.
Ma non solo. Cerco di fare volantinaggio quando mi è possibile, cerco di parlare alla gente, cerco di farmi sentire. A volte è difficile e mi scoraggio, però poi basta pensare che lo si sta facendo per loro, per un amore così grande e infinito che sono ben felice di aver conosciuto e che vorrei tutta l'umanità potesse comprendere: non c'è amore più grande di quello disinteressato degli animali. Loro danno amore amore amore a non finire e non gli interessa se sei povero, se non puoi dargli tanto da mangiare, a loro interessa essere amati. E io li amo profondamente.



E' stata dura leggere tutto, mi hai messo in difficoltà sai...? :) A presto!

Rita ha detto...

Ciao Volpina,
il succo del mio post comunque è che finché si andrà avanti di scelta personale in scelta personale, non arriveremo mai ad abolire lo sfruttamente sistemico (e sistematico) degli animali. Certo, se improvvisamente tutti quanti, o almeno il 50% + 1 divenissero vegani e mettessero in discussione i presupposti su cui si basa l'economia e la società (che sono sempre presupposti di sfruttamento, tanto degli animali, quanto degli uomini) allora forse verrebbero fatte, ed ascoltate determinate richieste. Ma questo non accadrà finche la questione non diventerà anche politica, ossia finché non si formerà una coscienza di massa adeguata che chiede una ristrutturazione globale della società. Non è che gli animali vengono sfruttati perché al mondo esistono alcune persone cattive ed altre buone, ma perché è l'ingranaggio stesso del sistema che lo consente. L'essere umano non è specista perché esiste lo specismo oppure lo specismo esiste perché l'essere umano è specista, che detto così si risolve in un corto circuito, l'essere umano semplicemente sfrutta gli animali perché il sistema socio-economico da secoli va avanti così e certo, alla fine, a forza di considerare gli animali come "cose", l'uomo ha perso la capacità di guardarli negli occhi e capire che sono esseri viventi. Questi sono concetti che sto pian piano facendo miei, ma che, ci tengo a ri-sottolinearli, sto apprendendo da Marco Maurizi.

Ma perché hai faticato a leggermi, per via dell'eccessiva lunghezza o perché è poco comprensibile la maniera in cui scrivo? ;-)
Io ci tengo ad essere chiara e comprensibile, non scrivo per me stessa, ma per comunicare.

Com'è andato il volantinaggio? Hai proseguito? Ha piovuto poi?

Volpina ha detto...

Si ha piovuto, ma poi ti racconto in privato... :(

Ho faticato a leggerti perchè ero stanchissima! :D Però non potevo non arrivare alla fine! DOVEVO! Hahaha!
No sei stata chiarissima come al solito!

ivaneuscar ha detto...

Una delle maniere più disoneste di condurre una discussione è quella di spostare l'attenzione dall'oggetto della stessa alle qualità individuali degli interlocutori, rivolgendo accuse di tipo personale, denigrando i soggetti che propugnano una tesi al fine di confutare la stessa.
Hai ragione, purtroppo è una tattica largamente utilizzata nei dibattiti politici. E non è neanche nuova. Se si legge un testo ottocentesco come L'arte di ottenere ragione scritto da Schopenhauer, si scopre che questo ed altri sistemi sleali per trionfare nelle discussioni, basati sulla retorica, specialmente quando in realtà si rischia di avere torto, sono molto diffusi ancora oggi.
Oltretutto le maggioranze possono contare sempre sulla forza del luogo comune e dell'abitudine consolidata; le minoranze devono perciò armarsi di pazienza e tenacia, per "scavare la roccia" e seminare oggi, senza scoraggiarsi (come del resto tu dici nel post), perché si possano raccogliere i frutti domani.
E bisogna sforzarsi di reagire ai trucchi della retorica (come quello di cui si parlava all'inizio) senza accettare le provocazioni, ma mostrando invece lucidità, e persino ironia - in certi contesti finisce per spiazzare gli interlocutori, specialmente se questi pensavano di poterne avere facilmente il monopolio, nella discussione.
Mi sembra tu colga un punto importante, poi, quando dici che bisogna mettere in primo piano la difesa degli animali e non la nostra scelta alimentare; questa deve discendere come conseguenza da quella, e pertanto bisogna sempre sottolineare che sono gli animali i veri discriminati.
Questa tua sottolineatura mi porta a un'ulteriore considerazione: il vero traguardo è l'abbattimento delle barriere fra le specie, per la liberazione di ogni essere senziente [è solo una definizione approssimativa, che abbozzo al momento]; e quindi bisogna puntare forse a far cadere nella sensibilità diffusa e nella cultura e mentalità condivisa questa barriera.
L'inconsistente obiezione che viene di solito fatta agli animalisti e che tu qui ricordi è: "Voi vi preoccupate più degli animali che delle persone" (o varianti simili); e nasce proprio dalla barriera che abbiamo ancora nella testa: da un lato noi, dall'altro loro. Bisognerà arrivare a capire che esiste solo un noi ed è forse questa consapevolezza l'unica che può portare lontano. Pensare che possa attecchire in breve tempo tanto da diventare "sentire comune" è arduo, però è solo da quel senso del noi esteso che può derivare un atteggiamento diverso nei confronti delle specie "non-umane".
Fermarsi solo al problema della "tavola", sono d'accordo, non mette in questione la cultura e la mentalità diffuse, e rischia di ridurre tutto il discorso a una questione di "gusti" o di "sensibilità personale". Il che offre ottimi pretesti a chi vuole buttarla sul "personale" - un terreno molto più agevole di discussione per chi si appiglia ai luoghi comuni, che sostengono per loro natura il pensiero "dei più" essendo complici di chi denigra sghignazzando il presunto "fanatismo" dei "mangiatori di verdure", confinati nell'immaginario a una specie di "setta".
Intanto - e mi sembra una nota positiva - in molti ambienti l'antispecismo si diffonde, e ho potuto constatare che viene associato in alcuni siti e blog femministi alla lotta contro le discriminazioni di genere, secondo il principio (cito a memoria, quindi potrei sbagliarmi sui dettagli): Chi è antisessista non può non essere antispecista.
E' solo un esempio, ma forse ha la sua importanza.
(P.S.: è sempre un piacere leggerti :-)

Dany ha detto...

Come sempre, un ottimo articolo, scritto molto bene e interessante.
Ragionare su questi discorsi è complesso, almeno per me, che mi ritrovo a combattere il mio essere sempre molto accomodante e diplomatica, con la straziante lacerazione che sento nell'anima quando vedo qualcuno addentare un pezzo di carne o bere un bicchiere di latte.
Non mi da fastidio l'azione in sè, capisco chi ancora mangia carne, anche perchè fino a qualche anno fa lo facevo anche io...quando sono a tavola con chi mangia carne, cerco di concentrarmi su quello che mangio io, perchè altrimenti l'argomento finisce sistematicamente sul fatto che LORO stanno consumando pezzi di cadavere e di solito, a tavola, non è un argomento che fa piacere ascoltare.
Magari invece, dovrebbero proprio ascoltarlo mentre masticano, così da collegare la loro azione a quella dell'assassino, ma mi è difficile, rovinare l'atmosfera, di solito gioviale dei pranzi o cene fra amici.
Non so se sono stata chiara e comprensibile... è una specie di lotta interiore... voler sbattere in faccia la verità a chi sta gustando un banchetto di morte, ma non voler turbare gli amici/familiari durante qualcosa di piacevole per loro... non lo so... sono sicura che dovrebbero SAPERE, VEDERE, ASCOLTARE, SENTIRE... ma se è vero che la mia libertà arriva fino a dove non danneggio l'altro, a volte essere pedante e logorroica (e lo sono eccome :0) )soprattutto su un argomento così controverso (per loro) del mangiare morte, credo intacchi anche la loro libertà di NON voler sentire o comunque, di fare quel cazzo che vogliono.
Tanto ormai i miei conoscenti, sanno benissimo le mie motivazioni... (soprattutto i familiari) e dato che rispettano la mia scelta, non mi rompono le balle, ma so benissimo che non lo trovano giusto, altrimenti avrebbero già smesso di nutrirsi di quella merda.
Concludendo... sono certa che bisogna informare, parlarne il più possibile e coinvolgere le persone, ma sempre senza attaccare, anche se a volte una testata in mezzo agli occhi sembra l'unica soluzione, perchè il motivo per cui la gente "odia" veg e animalisti è proprio perchè molti iniziano a parlare ininterrottamente di animali, libertà ambiente, fame nel mondo, dolore, morte... cose che NON hanno piacere di sentire, soprattutto perchè facendo parte della grande maggioranza, si sentono nel giusto. Come dargli torto? Se su 10 persone ci sono solo io, vegan, per loro è ovvio che quella "non normale" sono io!Quindi il discorso del 50+1 è giustissimo, credo solo che il modo migliore di arrivarci, non sia la lotta, ma la dimostrazione. Ovvero, far vedere quanto stiamo bene, quanto siamo felici e sani, attivi e divertenti... non logorroici rompicoglioni, scassaminchia, monotematici... :0)

Un abbraccio

de spin ha detto...

Ringrazio orgoglioso della tua citazione, carissima. Gran bell'articolo hai scritto.

No justice no peace. E' uno slogan trito e ritrito, ma è la realtà.
Nessuna pace nel mondo, nessuna pace per l'essere umano sarà possibile, fino a quando non cesserà lo sterminio sugli animali.
La radice dell'inconsapevolezza è unica. Un Beppe Grillo che afferma pubblicamente di adorare la carne, e che si mette a deridere i vegetariani, non potrà mai essere un buon governante. Impossibile. Brancola nel buio come tutti gli altri.Rinchiuso come (quasi) tutti nelle galere del proprio ego-ismo.
No justice no peace. E' una legge esistenziale.
L'essere umano che mangia e opprime gli animali è una deviazione malata della propria specie. Non fa che produrre sofferenza, a tutti, indistintamente, se stesso compreso.
L'antispecismo a mio modesto parere non si limita al voler difendere le specie animali dall'abuso dell'uomo. Vuole anche e chissà forse sopratutto restituire dignità e speranza all'essere umano.

Rita ha detto...

@ Ivaneuscar

Anche per me è sempre un piacere leggerti e come al solito i tuoi commenti aggiungono sempre interessanti riflessioni.
Le barriere tra le specie (direi tra quella umana da una parte e tutte le altre dall'altra) purtroppo esistono perché lo sfruttamento degli animali si è talmente radicato nella memoria da aver fatto dimenticare all'essere umano che è un animale anch'esso.
Sì, spesso la lotta per la liberazione animale viene associata a quella di altri movimenti o minoranze discriminate (io stessa più volte ho portato come esempio l'analogia della fine della schiavitù dei neri per far capire che un'evoluzione dell'umanità in termini etici è sempre possibile), ma ci sono alcune distinzioni da fare, secondo me: innanzitutto gli animali non sono soltanto discriminati (ossia, non è che hanno meno diritti rispetto a noi, non li hanno proprio), vengono considerati "cose", il loro valore inerente in quanto esseri viventi è totalmente negato (ad eccezione delle specie d'affezione); secondo poi mentre le donne, gli omosessuali o altri individui che protestano per maggiori diritti possono scendere in piazza autonomamente, gli animali non possono farlo e questo complica notevolmente le cose. Importante però, a questo proposito, sottolineare una cosa: se noi ci aspettiamo che gli animali protestino alla stregua di noi umani, allora è facile pensare che non siano esseri in grado di manifestare per i loro "interessi"; invece, essendo specie che usano modalità di comunicazione diverse dalla nostra (e sarebbe l'ennesimo sgarbo specista che gli faremmo se pretendessimo che parlassero come noi), è nostro compito cominciare ad ascoltarle. Un animale che urla, che scalcia, che cerca di liberarsi dalle catene imposte, sta dicendo qualcosa.
L'unica cosa da capire, quella su cui puntare è far comprendere alla gente che lo sfruttamento delle altre specie è il risultato amplificato dello sfruttamento tout court, che è alla base della nostra società ed economia e che finché non cerchiamo di affrancarci da questa maniera di pensare e pensarci, nulla cambierà.
Un saluto. :-)

Rita ha detto...

@ Dany

Io comincio a ragionare in maniera un pochino diversa (per questo ho scritto che questo era un post di autocritica). Non sono più tanto sicura che la mia libertà finisca dove cominci quella dell'altro, bensì che la mia libertà INIZI dove inizia anche quella dell'altro (questa espressione così formulata non è mia, non ricordo però dove l'ho letta, comunque sia... la condivido appieno).
Nel senso che se chi mi sta di fronte sta opprimento qualcuno, nella fattispecie gli animali, allora sta opprimendo anche me, perché sfruttamento animale ed umano sono collegati.
Preferisco passare per antipatica, rompiscatole, odiosa, folle, quello che vuoi, ma dire le cose come stanno. Certo, in contesti, tempi e modi adeguati. Non è che entro al supermercato, salgo su un banchetto e mi metto a predicare. ;-)
Però non dirò mai che ognuno è libero di mangiare chi vuole. No. Di fatto lo è, perché non posso imporgli di mangiare il seitan al posto del pollo, ma il mio consenso non l'avrà.
Ci sono in gioco vite di altri esseri viventi, umani quanto animali, ed essere accondiscendenti non credo sia una risposta. E poi, come ha scritto Sara nel commento sopra, gli altri devono capire che le nostre battaglie in difesa del più debole e per una liberazione totale di ogni essere vivente, coinvolgerà anche loro stessi, ne beneficeranno essi stessi.
Finché ci saranno animali sfruttati ci saranno anche uomini sfruttati, questo è innegabile.

So che il tuo approccio è diverso dal mio, tu credi che con l'esempio individuale si possa arrivare a tanto, magari alla fatidica soglia del 50% + 1 che porterà a qualche cambiamento, ma se sono decenni che si parla dell'antispecismo, secoli che esiste il veganismo ed il vegetarianismo eppure il sistema socio-economico basato sullo sfruttamento (tanto degli uomini quanto degli animali) non è cambiato, qualcosa significherà, no?
Se non mutano gli ingranaggi profondi, non solo socio-economici, ma anche culturali, che consentono questo, non si può sperare che il singolo faccia progressi. O meglio, sì, ci saranno sempre più vegani magari, o magari no.
Insomma, il messaggio "peace & love" scritto sulla maglietta, secondo me non funziona. ;-)
Funziona di più cercare di far comprendere alla gente l'innegabile uguaglianza che c'è tra sfruttamento animale ed umano. E convincerla a lottare per liberarci tutti dalle catene.
Un saluto. :-)

Rita ha detto...

@ De Spin

Sì, ne sono convinta anche io. O meglio, me ne sto convincendo ogni giorno di più. L'antispecismo non è più soltanto lottare per i diritti animali, ma per i diritti di tutti. Di quali diritti stiamo parlando? Ma di essere liberi, non più schiavi gli uni dagli altri, non più in catene.
E infatti mi è piaciuto moltissimo, come ti ho scritto, il tuo ultimo post di critica di alcune restrizioni che verranno poste in Olanda, perché ogni norma che limita, che controlla, che vieta è un anello in più che viene aggiunto alle nostre catene.
Ovviamente gli animali sono quelli che stanno peggio di tutti. Tanto che, persino nel linguaggio comune, quando si vuol esprimere una condizione terribile si dice: "soffre come un cane", "trattato peggio di un animale"; ciò significa che una consapevolezza minima di terribile trattamento che riserviamo agli animali esiste. Bisogna solo fare in modo che la gente capisca che non deve essere scontato, che non è inscritto in nessuna legge atavica, che non è impossibile da sconfiggere, non è uno stato di natura (alcune specie sono predatrici, vero, mangiano ed uccidono le prede, ma mica le sfruttano, è diverso).
Lo sfruttamento è invece meccanismo tipicamente umano.

Un saluto.

Anonimo ha detto...

"ciò che più che urge è riassegnarle un giusto spazio ... ossia svelarne le vere origini, restituirle il suo vero significato: ridicolizzando gli antispecisti, i vegani, vegetariani, è in sostanza a ridicolizzare gli animali che si tende. Quindi forse come suggerisce Maurizi sarebbe più corretto parlare di "teriofobia", che non di "vegefobia"."

Cara Biancaneve,

torni sul blog sulla vegefobia, visto che lo conosce già. In alto a destra, nella parte più visibile del menù, c'è scritto:

"Cos'è la vegefobia

- Una volontà di farci vergognare della nostra preoccupazione per gli animali

- Letteralmente, paura dei vegetariani. Concretamente, animali al macello.

- La negazione fisica degli animali attraverso la negazione simbolica dei vegetariani".

Vedrà che ognuna di queste frasi contiene un link a dei testi di approfondimento. Da questi testi si comprende benissimo che chi ha introdotto e sviluppato la nozione di "vegefobia" non la intende affatto come una semplice ridicolizzazione e discriminazione dei vegetariani e non aveva certo bisogno di Marco Maurizi per sapere che dietro la vegefobia c'è molto di più: c'è, come espresso in queste tre definizioni che più succinte e più chiare non si può, la condizione degli animali.

È stato fatto notare a Maurizi che il suo testo non cita alcuna fonte sulla teorizzazione della vegefobia. Ma a quanto pare la cosa non sconvolge nessuno, e tutti continuano a ripetere falsità sulla "vegefobia".

Se lei è una persona seria, legga quei testi di approfondimento fino in fondo (alcuni rimandano a testi più lunghi) e poi magari scriva un altro post per dirci cosa ne pensa. Tante persone hanno lavorato duro per introdurre questo concetto nuovo, che è stato ostracizzato in modo sistematico e a volte anche violento. Non è giusto che questo lavoro venga spazzato in colpo solo per colpa della superficialità di qualcuno.

Con simpatia,

AP

Rita ha detto...

@ AP

Leggerò sicuramente i link che ha messo. Però credo ci sia stato un fraintendimento. Nè io, né credo Maurizi, vogliamo negare che esista la vegefobia, anzi, come avrà letto io dapprincipio mi sono anche trovata in disaccordo con Maurizi proprio perché mi pareva che tale termine esprimesse in una maniera molto opportuna il concetto (i concetti) che lei elenca. Poi, riflettendoci, nei giorni successivi, ho pensato che, per chi non è addentro a determinate questioni (intendendo la maggioranza delle persone che ignora persino termini quali: antispecismo, veganismo, e quindi, a maggior ragione, vegefobia o che comunque ne ha un'idea sbagliata) il termine "vegefobia" potesse far pensare, in totale ignoranza e superficialità, alla "paura dei vegan" o comunque riporre l'accento più sulle persone che non sugli animali di cui invece si occupano. Come ho scritto nel post, del resto.
Ripeto, non disconosco affatto la serietà del concetto, la sua complessità, l'innovazione del termine e tutto ciò che veicola e c'è dietro e che a me suona, peraltro, chiarissimo (so bene che dietro c'è l'impegno per restituire dignità agli animali, per parlare della loro condizione ecc.), solo immagino che possa essere frainteso da tante persone, dalle persone comuni.
Non credo che siamo noi a far paura, quanto le nostre istanze. Detto in parole semplici, le persone hanno paura di non poter più mangiare la salsiccia che gli piace tanto, vedono messa in discussione quella che loro ritengono sia una scelta legittima (di dover uccidere animali per cibarsene o per altro).

Capisco che tante persone hanno lavorato sodo per introdurre questo concetto, però più che lo sforzo delle persone a me, come sempre, interessa, la liberazione animale e la divulgazione, nella maniera più chiara possibile, di determinati concetti affinché si possa sensibilizzare la gente sulla sorte degli animali. Quindi, e poiché sono una persona seria, leggerò ed approfondirò e, se lo riterrò necessario, ci scriverò un post, ma, come ripeto, non è il concetto di "vegefobia" che discuto, assolutamente, ma proprio l'appropriatezza del termine o meno.
Forse lei non mi ha letta bene. Io infine mi sono trovata d'accordo con il suggerimento di Maurizi di trovare magari un nuovo termine per esprimere lo stesso concetto.
In quanto all'ostracismo sistematico e violento del concetto, sinceramente, non so nulla. Non mi sembra che sia stato il nostro caso.
Infine, mi scusi, ma a chi si riferisce quando dice "superficialità di qualcuno"? Spero non a Maurizi perché le posso assicurare che non è per niente una persona superficiale; si può essere d'accordo o meno con le sue idee, ma di sicuro sono sempre frutto di un lungo lavoro, studio e riflessione. Nè, tantomeno, spero ci si voglia riferire a me. Avrò tanti difetti, ma quello di essere superficiale no.
Con altrettanta simpatia.

Rita ha detto...

@ AP

P.S.: e comunque, ripeto, portare troppo l'attenzione su noi vegan anziché sugli animali, pure se a noi sembra evidente che ci adoperiamo per essi e che chiediamo la loro liberazione, nella gente comune suona come un voler ottenere qualcosa per noi (tipo essere lasciati liberi di esprimere le nostre idee, non essere ridicolizzati, sbeffeggiati ecc.), mentre ciò che più urge è che gli animali siano lasciati liberi di esprimersi.
Si rifletteva sull'appropriatezza del termine, tutto qui.

Anonimo ha detto...

Cara Biancaneve,

le riflessioni sulla vegefobia sono sempre state accompagnate da uno sforzo estremo di divulgazione. Lo mostrano già le tre frasi che le ho citato, che rispondono alla domanda "cos'è la vegefobia" e che sono in bella evidenza nel blog. Il blog stesso è uno strumento evidente di divulgazione. I militanti del Veggie Pride si sono costantemente impegnati nella scrittura di testi e nell'organizzazione di dibattiti. Guardi questa foto e mi dica se il messaggio dello striscione non è chiaro!

Se si leggono i testi e se si dialoga con chi li ha scritti, appare evidente che la vegefobia si riferisce non alla "paura dei vegetariani/vegani", ma alla paura del loro gesto di disobbedienza, un gesto che rifiuta e spezza il tipo di relazione che la nostra società intrattiene con gli animali domestici. Cosi come l'omofobia non è la paura dell'omosessuale in quanto preciso individuo, ma della rottura da lui/lei incarnata del tipo di relazione tra i sessi pianificato dalla società tradizionale, ovvero dell'eterosessualità obbligatoria. Queste non sono cose astruse.

Molto più astruso è parlare di "teriofobia"! Primo, perché fa riferimento ad un termine greco non conservato in italiano (therìon, pl. therìa - a proposito, dove è finita l'h?) Secondo, perché questo termine ha un'accezione precisa in greco antico, che funziona, certo, nel discorso di Maurizi, ma che non è detto possa essere applicata, così come non è detto che lo possa il discorso di Maurizi, alla questione di quegli animali che sono oggetto delle nostre pratiche alimentari. A meno di non fare quelle che io ritengo grandi e gravi semplificazioni. Non posso dirne di più in un commento, ma le prometto che questa idea di "teriofobia" verrà messa alla prova.

In ogni caso, non è vero che Maurizi abbia voluto semplicemente proporre un nuovo termine per lo stesso concetto. Magari fosse solo così. Nell'articolo "Teriofobia", il concetto stesso di vegefobia è stato criticato (accuse di "liberalismo", di "spoliticizzazione"...) sulla base di una sua rappresentazione distorta operata con estrema disinvoltura (difatti, ripeto, non ci sono fonti, solo formule platealmente capovolte). Comunque, quello che penso del modo in cui Maurizi ha gestito l'argomento "vegefobia" e "Veggie Pride" l'ho detto qui. Si tratta ancora una volta di leggere altri testi; capisco benissimo che si possa non avere il tempo, ma purtroppo per andare a fondo delle cose non c'è altro da fare. Nel caso dell'articolo "Teriofobia", i testi non sono stati letti, e si vede. Non commetta lo stesso errore. :)

Leonardo Caffo ha detto...

Ciao Biancaneve,

abbiamo deciso di rirproporre questo articolo su Asinus perché davvero interessante.

spero ti faccia piacere,

se mi mandi una riga con nome, cognome e mini descrizione blog alla mia mail ti abilito a postare direttamente su asinus.

Unknown ha detto...

Ti ringrazio Rita per la cortese risposta che hai dato ad accuse pretestuose e arroganti. Ho pubblicato una nota sul modo curioso in cui queste persone conducono la loro "battaglia" culturale e politica.

http://asinusnovus.wordpress.com/2012/05/10/nota-sulla-vegefobia/

Per parte mia quando i toni sono questi e quando chi accusa gli altri di non leggere è il primo a non sapere di cosa parla, direi che si può tranquillamente lasciar cadere la "discussione" nel vuoto da cui è nato.

A presto!
Marco

Rita ha detto...

@ AP

Credo che l'analogia tra omofobia e vegefobia non sia pertinente in quanto gli omosessuali non discutono e non criticano affatto l'eterosessualità, ma rivendicano soltanto la libera espressione e manifestazione del loro orientamento sessuale.
C'è una differenza sostanziale quindi ed è su questa che temo il termine vegefobia, specialmente se accostato alle altre lotte o manifestazioni di "orgoglio", possa essere frainteso.

L'omosessuale che scende in piazza chiede di essere riconosciuto. Ma non chiede, né pretende che la società si uniformi al suo orientamento sessuale. L'omosessuale non vuole abolire l'eterosessualità, ma chiede semplicemente che il proprio orientamento sessuale coesista assieme a quello etero in una parità di trattamento e diritti.
L'antispecista invece chiede un totale cambiamento socio-economico e culturale nell'interesse non suo, nell'interesse di chiunque sia vittima di sopraffazione e sfruttamento.
La battaglia antispecista è ancora più radicale quindi di quanto possa esserlo qualsiasi movimento contro l'omofobia.
Non si chiede di coesistere ed ottenere riconoscimenti accanto a, ma di vanificare ogni atto di sfruttamento degli animali.
Per questo mi ritrovo e riconosco sempre più in termini quali antispecismo, anziché veganismo.

Ho letto gli articoli che mi ha linkato. Ripeto, si tratta probabilmente di una differente maniera di percepire il termine "Veggie Pride"; a me viene di associarlo al "Gay Pride" e, per i motivi di cui sopra, non posso trovarlo analogo.

Ma vorrei fosse chiaro che qui nessuno ha voluto distruggere il vostro lavoro, ma solo esprimere una diversa visione.

Anonimo ha detto...

"gli omosessuali non discutono e non criticano affatto l'eterosessualità, ma rivendicano soltanto la libera espressione e manifestazione del loro orientamento sessuale. … L'omosessuale non vuole abolire l'eterosessualità, ma chiede semplicemente che il proprio orientamento sessuale coesista assieme a quello etero in una parità di trattamento e diritti."

Cara Biancaneve,

l'orientamento sessuale non è una semplice impostazione biologica del proprio corpo o della propria psiche della quale occorra esigere il rispetto. La bisessualità e l'omosessualità sono comportamenti trasgressivi dell'eterosessualità obbligatoria imposta dalle società patriarcali e in quanto tali possono anche – ed erano negli anni Settanta, e lo sono ancora nelle componenti più radicali dei movimenti femministi - essere scelte come vere espressioni di rivendicazioni politiche. E non semplicemente vissute/subite. La mera biologizzazione dell'omosessualità è tipica del modo in cui la questione viene assorbita e digerita al giorno d'oggi, per cui le rivendicazioni LGBT vengono lette dall'opinione pubblica - e anche da una parte stessa del movimento gay, meno politicizzata - come semplici richieste di tolleranza dell'esistenza di alcuni individui e della loro condizione «di natura». E questa purtroppo è proprio la lettura semplicistica, non politica, che ne fa lei! Se tale lettura fosse giusta, sarebbe giusta anche la sua critica dell'orgoglio gay: una mera rivendicazione di nicchia. Ma non lo è! La rivendicazione dell'omosessualità implica la critica dell'eterosessualità obbligatoria e quindi dell'intera morale sessuale sociale! E parimenti, la rivendicazione organizzata, collettiva, del vegetarismo, va a toccare, a deunciare, a contestare, l'insieme della «morale alimentare» sociale, all'interno della quale si annida la logica delle relazioni che noi abbiamo con le specie addomesticate. Tutto questo non è poco.

È chiaro che chi segue la lettura biologico-individuale dell'omosessualità continuerà a pensare che la rivendicazione dell'orgoglio vegetariano rifletta lo stesso schema. Che dire... questa è solo vulgata, sia per quanto riguarda l'omossessualità che il vegetarismo.

Se si vuol continuare a sostenere che l'omosessualità è una semplice condizione naturale che merita «rispetto», e che quindi anche rivendicare l'orgoglio vegetariano significa solo chiedere «rispetto» per la propria scelta personale...

Se si vuol continuare a sostenere che chi critica la vegefobia ha una visione individualistica della società, quando è stato proprio il concetto di vegefobia a introdurre l'idea che i problemi dei singoli vegetariani non siano episodi isolati ma parte di un sistema...

Se si vuol continuare a sostenere che la vegefobia è un concetto astratto, che teorizzerebbe una «discriminazione» degli animali, quando è stato ripetuto in tutte le salse che la vegefobia è un ingranaggio del meccanismo che manda gli animali al macello...

… beh, errare è umano, e lo è anche il perseverare, purtroppo... io ormai sono rassegnata.:-)

Rita ha detto...

Ma io veramente non intendevo mettere in discussione anche l'atto politico dell'omosessualità, solo evidenziare che l'omosessuale non intende porsi in maniera conflittuale verso l'eterosessuale. Ciò che lei afferma e cioè che le battaglie degli omosessuali vogliano anche, soprattutto anzi, abbattere la visione sociale purtroppo appiattita solo sull'eterosessualità è giusto. Ha ragione.
Ma mentre il vegetariano vorrebbe vedere annullato lo sfruttamento degli animali, l'omosessuale non vuole affatto vedere annullata l'eterosessualità, solo abbattere la diffusione di un concetto che la pretenderebbe "obbligatoria".